Beppe Mariano

Premio LericiPea "Edito" 2020/21 - i Finalisti

BEPPE MARIANO

Beppe Mariano vive ai piedi del Monviso, sua montagna totemica. È stato fondatore di riviste letterarie: tra queste “Pianura”, a metà degli anni settanta, insieme con Sebastiano Vassalli, che la diresse, Giorgio Bárberi Squarotti, Adriano Accattino, Cesare Greppi e altri. Nell’ultimo decennio del Novecento Mariano ha condiretto, prima a Milano e poi a Roma, la rivista “Il cavallo di Cavalcanti”. Da qualche anno collabora a “In Limine” e a “Mosaico italiano”.
Sue pubblicazioni recenti di poesia: nel 2007 Il passo della salita (Interlinea); nel 2012 (ristampato nel 2013) Il seme di un pensiero (Poesie 1964-2011), con presentazione di Giuseppe Conte e contributi critici di Giorgio Bárberi Squarotti, Gianni D’Elia, Giovanna Ioli, Elio Gioanola, Barbara Lanati, Giorgio Luzzi, Giovanni Tesio e Sebastiano Vassalli (Aragno). Il seme di un pensiero ha vinto il premio internazionale Sulle orme di Ada Negri, il Guido Gozzano e l’Arenzano-Rodocanachi, ed è stato premiato al Sandro Penna, al Giovanni Pascoli e al Michelangelo.
Auspice il critico e pittore Albino Galvano, Mariano ha svolto negli anni settanta e ottanta attività di poeta visivo (catalogo edizioni Marcovaldo, 2002). A marzo 2019 è uscita la raccolta Il Monviso e il suo rovescio (Mursia).

La mia raccolta Il Monviso e il suo rovescio, Mursia, è compresa tra
due cerniere morali. La prima è la poesia “L’orizzonte”, ispirata a
Primo Levi, scalatore non solo di montagne, poiché privilegia
l’orizzonte che si raggiunge tramite la fatica.
“Merito all’onore” rappresenta la cerniera finale perché ricorda a me
stesso, anziano, lo sforzo di ricordare i nomi associati a una scelta
etica impervia.

Beppe Mariano

L’orizzonte

… e ancora pianura oltre l’orizzonte.

L’erba ha increspature ventose, ondose flessuosità.
Potrebbe essere il mare.

Ma anche la montagna,
che imprigiona o protegge,
può essere il mare.

Bisogna salirvi
fino a che lo sguardo non giunga
a un mareggiare di cime.

L’orizzonte, infine, risulterà più esteso,
reso migliore dalla fatica.

Il proposito

Anche tu sembri cercare la verità
della parola, pur nella sua
multiformità. Nell’asimmetria
della vita, tra ironia e monito,
pretesa definizione dell’indefinito,
potrà sembrare assurdo il proposito…
Oppure l’anello che non tiene
per un attimo terrà?

In arca

Tra le trame dei massi arcaici
e del pietrame, l’acqua fattrice di forme
è la migliore scultrice.
Il monte solcato dai ruscelli
è un corpo lavorato dalla danza.
Precipito col torrente che mostra
i bicipiti, prima di farsi Po
e nel Po placarsi.
Vorrei andare anch’io verso il mare.
Ma è greve guidare l’Arca
frenata dalla neve ghiacciata,
da stelle che trafiggono,
dal ricordo di un corpo ancora caldo.
Pur di vietarmi l’accesso al mare
la mano del delta si chiuderà a pugno.

Sali a te stessa

La tua montagna è una delle parlate.
Lacerti di latinorum e d’arabico
con brusii di selva, belati e pii muggiti,
grugniti del tuono, struscio del vento
sulle rupi, squittii del volo
sciacquio d’acque, ritrosia
di marmotta, nidi in pigolio
fragori di cascata…

Ma tu vai oltre:
lasci la cordata indigena
e sali a te stessa,
alla te stessa ancora sconosciuta,
alla parola che ti significa e ti perturba.
Vuoi, e pur temi, all’uscita il nuovo ingresso.

A colori il cosmo

Scendendo, l’imbianchino del palazzone
ad ogni finestra guarda dentro.
Alla più bassa, rasente il suolo,
scorge un africano che gli sembra
un personaggio beckettiano.
Non ha un vero letto, solo un giaciglio,
tra il cesso e il poco mobilio raccattato.
Su un cartone vi sono due piatti:
uno per sé, l’altro per un invitato
che non c’è; né, come Godot, giungerà.
Eppure è contento. Si è salvato dagli eccidi,
dal tormento della fame…
Ha issato sul balconetto un padellone TV
ed ora può vedere il mondo e con meraviglia
a colori il cosmo dove immagina
la sua famiglia massacrata
trasvolare lungo una flottiglia di stelle.

Sopra

a M.G.A.

Torna dall’aver lavorato nel frutteto
fino alla spossatezza, pedala
su una bicicletta – residuo d’altri –
l’eritrea di efebica bellezza,
percossa dal vento di macchine
furenti sul margine della strada,
o della vita, continuamente sfiorata…
Colpita da un retrovisore
sta per rovinare a terra
quando dalle sue scapole
due ali spiccano
e subito s’ innalza
prende cielo
vola sopra le macchine stesse
(che per lo stupore si tamponano)
sopra il frutteto padronale,
il paese del malumore.
Sopra.

Alzare muri

Cemento in grandi blocchi: un muro
di possente egizia precisione
a dividere una nazione dall’altra.
Altri muri sono più ordinari:
di mattoni uno sull’altro disposti con varie
calce e malta a formare il divisorio
tra una famiglia e l’altra.

Vi è spesso un muro tra te e lei,
pur insieme nella stessa abitazione
in cui vi siete agli altri murati.
Si è fatto muro in te l’abituale.
Ad ogni poesia lo abbatti; ma nell’ordinario
si riforma. Strenuamente lo combatti
poetando quasi senza interruzione.

Rosetta

Rosa rosae rosam
Rosa Rosina Rosetta…

Aveva vent’anni, Rosetta,
cresciuta in fretta, alla fame,
rincorrendo rosette di pane,
perfino nel cielo magrittiano,
d’amore altrettanto affamata.

Aveva vent’anni… e venti erano
quelli che l’hanno stuprata,
pur non volendo, volenti.
È un mistero quel che è successo,
scrissero i giornali. Le indagini furono
sviate, mai si giunse a processo.

Quante Rosetta sono state da allora
straziate da mandanti sconosciuti,
inconoscibili, anzi. Straziate
ancor più da compagni narcisi,
che pretendono invece che amore servigi,
secondo l’usa-e-getta del tempo.

Rosa rosae rosam
Rosa Rosina Rosetta…

L’antrace

a S.G.

Il permafrost si sta riducendo.
Il ghiaccio arcaico, sciogliendosi,
ha liberato un plantigrado estinto,
che Lucy – onora nel nome un primate –
scopre rimasto quasi intatto.
S’inginocchia davanti al prodigio
con il fervore di una bambina meravigliata.
Scorgendo spalancati gli occhi
del plantigrado – vitrei laghi –
vorrebbe richiuderli, li sfiora,
ed è come se carezzasse
un rugoso tempo cosmico.

Ma anche i batteri dell’antrace
che lo uccisero, si sono scongelati
e l’hanno infine intossicata.
La sua mente si perde fuori scala,
si sfa. Non muore oggi,
muore un milione di anni fa.

 

Salire

Salire fin dove la vegetazione dirada
e i dorsi e le creste diventano sobri
ed essenziali, come la scrittura poetica.

Oltre la cascata che si innerva e tremota
nella roccia, sotto il volo ondoso

delle ballerine bianche che l’àugure
monvisano sa ancora interpretare.
Oltre una rapida del Po infante
in un intrico di pietre arcaiche

che la memoria torna a smuovere,
l’idropiteco lascia il lago tetro,
striscia nella nostra mente, la infosca,
mischia il passato con il presente.

Se è vero

Se è vero che il cosmo si sta espandendo
ancora e le galassie una dall’altra
si stanno allontanando, ti saluto
adesso e per sempre, mia cara Armilla.

Presto non potremo più telefonarci
dal tuo pianeta al mio.
A quanto si sa, il gelo siderale
si frapporrà tra noi, come
un litigio irrimediabile.

Sarà malinconico quando tra un secolo
un androide riceverà un tuo messaggio
a me destinato.

Merito all’onore

Anche la memoria un poco recede,
mi esercito ogni giorno per trattenerla.
Francesco Ruffini, Mario… Mario… Carrara…
E m’inceppo.
È come aggrapparsi a una nube.
D’improvviso ricordo altri nomi.
Li perdo e li ritrovo, perdendoli ancora.
Ma alla fine, ostinato, ci riesco.
Ripeto a memoria i loro nomi:
dei dodici professori che per aver
rifiutato di aderire al fascismo
persero la cattedra e furono perseguitati:
Francesco Ruffini, Mario Carrara,
Lionello Venturi, Gaetano De Sanctis,
Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli,
Ernesto Buonaiuti, Giorgio Errera,
Vito Volterra, Giorgio Levi della Vida,
Edoardo Ruffini Avondo, Fabio Luzzatto.

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