Premio LericiPea "Edito" 2020/21 - i Finalisti
PAOLO FEBBRARO
Paolo Febbraro è nato a Roma nel 1965. Ha pubblicato, dal 1999 al 2019, sei libri poetici. L’opera in versi e in prosa Il Diario di Kaspar Hauser è stata tradotta in spagnolo, in inglese e in francese. Sue poesie sono apparse in diverse riviste europee e nordamericane. Come saggista ha pubblicato volumi su Palazzeschi, Saba, Primo Levi e Seamus Heaney; recente è Poesia allo stato critico. Saggi e interventi (2021). Ha curato antologie e ha tradotto Edward Thomas, Michael Longley e Geoffrey Brock. Le sue prose d’invenzione sono raccolte in I grandi fatti (2016). Collabora alle pagine culturali del “Sole 24ore” ed è redattore della rivista “L’età del ferro”.
Dieci poesie da La danza della pioggia, Elliot 2019
Il corpo di mia moglie non mi va
soltanto di abbracciarlo:
ci metto dentro tanto seme
da farne una statua bianca
viva su una piazza e popolare,
statua che quando parlo e dico
mi senta appena appena bisbigliare
così da farmi ripetere
non credere e rispiegare.
Che come l’infinito di Leopardi
io possa fingerla senza pensare,
talmente fragile, bella, universale
da non poter fare una gita
neanche per andare in paradiso,
da non scegliere fra Dio e la vita,
per la paura di scordarne il viso.
Una statua d’Irlanda e di mare.
Adesso basta, che il corpo di mia moglie
io non lo posso davvero mostrare.
Al Vento
Amore io ti prometto
che se fossi al vento
della baia di Dublino,
adesso, in gennaio,
non avrei freddo:
mi sentirei vicino –
camminando rasente
alle siepi dei front-gardens –
al continente del mare
e alle odissee che il cielo
ammira negli uccelli
acquatici sulle prode
lunghe di bassa marea;
e nella brezza occidentale
che si avvita agli interni
delle vite minute,
fra le case che nei pomeriggi
si ridanno agli uomini
e frasi ariose d’alberature
azzurro-verdi io non avrei
freddo neppure in gennaio:
salirei su un treno urbano
per scendere nel caso del centro
sentendo leggero, dentro,
quel po’ di te nella mano.
La plenitudine
Bacia i seni di tua moglie, annusa
la sua nuca e tenta accuratamente
di non impazzire. Considera
che ha cinquant’anni, e tu quattro in più.
Scomponi, analizza: pensa che il suo corpo
è un pozzo di elettroni, quark, fotoni
in collisioni meticolose, che nel dialogo
ardono e cadono. Pensa che scorderai
questo istante, come non serbi il ricordo
della tua biologia.
Invece. Ti immergi, ti decanti nella
sua tessitura. Senti che il suo aspetto
è il massimo luogo cui puoi giungere,
più di un prato irlandese, più fondo
del primo mare. Non resistere.
Perdi il senno, con onestà.
Se tocchi entrambi i suoi fianchi
quello è l’intervallo che non fa giunte
le tue mani. Sappi che di questa
perquisizione del confine,
luce e limite, terrai soltanto
un vertice, un filo,
un endecasillabo isolato
che tornerà corroso, interpolato
nel giorno intransitivo del congedo.
1.Trovata
Ti ho trovata, per te mi spiacerà
di andarmene. Potrei scommettere
sul punto del tuo corpo in cui
si anniderà il mio concavo addio.
Che disabitudine sarà perdermi,
che appuntamento disdetto
al metro cubo d’aria
seduto al mio posto. Come saremo
ennesimi, in questo, e sorprendenti.
E niente, alle pareti, foto segnaletiche
nel caso un ospite venuto di fuori
mi avesse ancora notato in giro.
2. Quanto a me...
… sarà come quando ti rivesti:
nuvola distesa sul plenilunio.
O un gioco astuto dello spazio curvo:
verrà il momento prima d’incontrarti.
E sbiadirò ai tuoi seni incomprensibili,
li scorderò eternamente giovani.
Siglo de oro
M’interessa la polvere, se vortica
in un pozzo di luce aspettando
quel tanto di gravità sufficiente
a riportarsi a terra. Il minuscolo
silenzio con cui se camminiamo fugge
negli angoli a farsi galassia o laniccia.
Come scrolliamo gli abiti, passiamo
il dito sui mobili per sorprenderla
nel sonno e turbiamo il sogno grigio
di riaggregarsi in strato e corpo.
La sua nostalgia d’ogni forma,
l’incomprensione per l’acqua
e il posarsi ai margini e ai confini
come un testimone di nozze.
La sua somiglianza con la sabbia,
gigante che almeno si esprime in dune,
finge colline e ingrana la tempesta.
La sua calma decadenza,
futuro dissanguato che si attenda,
mite armatura, ombra che noi siamo,
madre del tempo, nostra obsolescenza.
Violenza di dio
Un giorno un dio disse:
«Voglio fare violenza a qualcosa,
essere energia brutale dominante,
sentirmi nell’abrasione, nel vincolo
malvagio del fatto».
Ma non riusciva a scegliere
contro cosa incarnarsi:
pensò a un tifone ma immaginò
sé stesso vano e rotatorio;
il terremoto lo convinse quasi
non fosse per le polveri restanti.
Una belva? Le zanne in un cerbiatto?
Avrebbe dovuto aver fame, prima.
Un uomo, allora, un vicolo e una donna:
violenza panica, ripugnante,
ma perché essere umano, dunque,
lo spreco di piramidi e gioconde?
Il dio indugiava, gonfio d’inesistenza
come un mare che lambisce il deserto:
«qual è la violenza di un dio?».
Fin quando si sparpagliò in lui
la forma inconsapevole d’un virus.
A Hiroshima
«Magari fossi morto.
Magari la benda sugli occhi
e la sigaretta. Magari il terrore.
A me la morte non mi ha mai ucciso.
Una forza, piuttosto, ineccepibile
mi ha scomposto. Il mio tempo
non è scaduto, è solo precipitato
all’indietro. Non puoi depormi,
forse aspirarmi inorganico e negativo.
Ricollocato in nulla. Gas definitivo».
Il poeta
La stanza si accontenta nel suo intero
finché poroso e incauto non vi entro;
col corridoio coabita il mio amore
se lo sciame di mia moglie ne fa un centro.
Sugli scaffali i libri promettono
elargizione d’inganni. I ripiani
parlano non appena mi distraggo
o non appena l’ho fatto da anni.
Risplendono, sonnecchiando, le usanze.
Se le rispetti le porte non sono
che un lungo custodirsi di aperture:
l’ombra dei mobili diventa corona.
Nell’intimo spiegarsi delle nature
Orfeo e Euridice sono la stessa persona.
La stanza si accontenta nel suo intero
finché poroso e incauto non vi entro;
col corridoio coabita il mio amore
se lo sciame di mia moglie ne fa un centro.
Sugli scaffali i libri promettono
elargizione d’inganni. I ripiani
parlano non appena mi distraggo
o non appena l’ho fatto da anni.
Risplendono, sonnecchiando, le usanze.
Se le rispetti le porte non sono
che un lungo custodirsi di aperture:
l’ombra dei mobili diventa corona.
Nell’intimo spiegarsi delle nature
Orfeo e Euridice sono la stessa persona.