BELLA ACHMADULINA


Bella Achatovna Achmadulina è nata nel 1937 a Mosca, dove è morta nel 2010. È stata una poetessa russa di padre tataro e da madre italo-russa.  Dalla critica è ritenuta l’erede delle due grandi poetesse Marina Cvetaeva e Anna Achmatova, e quindi una delle più significative voci liriche della Russia poststaliniana; considerata un’icona, è costantemente acclamata e amata ancora oggi soprattutto dalle generazioni più giovani.
Nell’ambito di un severo, tradizionale impianto metrico, che nella poesia russa si basa sul computo e la disposizione degli accenti tonici nel verso, la Achmadulina ha condotto un’originale ricerca sul linguaggio: attenta alle inflessioni gergali, ma sempre guidata da un’ansia di purezza espressiva e della fede nella funzionalità simbolica della parola. Nelle sue raccolte più recenti, così come nelle liriche apparse su giornali e riviste (anche nel circuito clandestino del samizdat, letteralmente “auto-pubblicazione”), esprime la meditazione sul destino dell’intellettuale nel mondo moderno e il virtuosismo stilistico lascia il posto a una più contenuta maturità d’espressione.
Ha passato quasi tutta la sua vita a Mosca, allontanandosi solo per brevi periodi, prima e dopo la perestrojka. È stata anche in Italia, nel 1977 a Milano (del soggiorno serbava un bellissimo ricordo), dove ha recitato nei teatri con voce appassionata e, qualche anno prima di spegnersi, ha soggiornato anche a Carrara (MS).
Ha conquistato larga popolarità con le raccolte di versi Struna (“La corda”, 1962), Uroki muzyki (“Lezioni di musica”, 1970, trad. it. Tenerezza e altri addii, Guanda, 1971), Metel´ (“La tempesta”, 1977) e il poema Mòja rodoslovnaja (“La mia genealogia”, 1964). Negli ultimi anni ha pubblicato inoltre Larec i ključ (“Lo scrigno e la chiave”, 1994), Sozercanie stekljannogo šarika. Kovye stichotvorenija (“Contemplazione di una pallina di vetro. Nuove poesie”, 1994), Grjada kamnej. Stichotvorenija 1957-1992 (“La scogliera di pietre. Poesie 1957-1992”, 1995). In italiano sono state inoltre tradotte Poesie scelte (Fondazione Piazzolla, Roma 1993) e Poesie (Spirali, Milano 1998).
È socia onoraria dell’Accademia americana delle arti e delle lettere (1977).Tra i premi ricevuti ricordiamo: Premio di Stato (Russia 1989), Premio internazionale della poesia “Nosside” (Italia 1992), Premio indipendente “Triumf” (Russia 1993), Premio Puškin (Germania 1994) e il Premio LericiPea “alla Carriera” (2008).


Bella Achatovna Achmadulina was born in 1937 in Moscow, where she died in 2010. She was a Russian poet from a Tatar father and an Italian-Russian mother. She is believed to be the heir of the two great poetess Marina Cvetaeva and Anna Achmatova, and therefore one of the most significant lyrical voices of the poststalinian Russia; considered an icon, she is constantly acclaimed and loved even by the younger generations.
As part of a severe, traditional metric system, Achmadulina has conducted an original research on language: she was very attracted to to slang inflections and, at the same time, she was always guided by an anxiety of expressive purity and faith in the symbolic functionality of the word.
In her most recent collections, as well as in the poems published in newspapers and magazines (and also in the clandestine circuit of the samizdat, literally “self-publication”), she meditates on the fate of the intellectuals in the modern world, and her typical stylistic virtuosity is replaced by a greater maturity.
She spent most of his life in Moscow, leaving only for short periods, before and after the perestroika.
She is an honorary member of the American Academy of Arts and Letters (1977).
The awards she received include: State Prize (Russia 1989), “Nosside” International Poetry Prize (Italy 1992), “Triumf” Independent Prize (Russia 1993), Pushkin Prize (Germany 1994) and the LericiPea Poetry Prize (2008).Her poetry collections include: Struna (“The String”), Moscow, 1962; Oznob (Fever), Frankfurt, 1968; Uroki Muzyki, (“Music Lessons”), 1969; Stikhi (Verses), 1975; Svecha (The Candle), 1977; Sny o Gruzii (“Dreams of Georgia”), 1978–79; Metell (“Snow-Storm”), 1977; Taina (“The Secret”), 1983; Sad (The Garden), 1987; Stikhotvorenie (“A Poem”), 1988; Izbrannoye (“Selected Verse”), 1988; Stikhi (“Verses”), 1988; Poberezhye (“The Coast”), 1991; Larets i Kliutch (Casket and Key), 1994; Gryada Kamnei (“The Ridge of Stone”), 1995; Samye Moi Stikhi (“My Own Verses”), 1995; Zvuk Ukazuyushchiy (“A Guiding Sound”), 1995; Odnazhdy v Dekabre (“One Day in December”), 1996.

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POESIE

Logiuro

Su quella foto di un’estate: stai sul terrazzino,
— sghembo, in disparte, come un patibolo —
di una casa estranea, davanti ad una porta:
porta per uscire, mai per entrare. Vestita

di una burrascosa corazza di raso
che serra il muscolo enorme della gola,
stai seduta: hai scontato, cantato
la fatica animalesca della caccia, della fame.

Su quella foto. Sul debole angolo dei gomiti
di un bambino dal sorriso stupito — il bambino
la cui morte adescherà altri bambini
abbellendo i volti con ombre di indizi.

Sul greve dolore che mi dava il tuo ricordo
quando, ansimando sui tuoi versi trafelati,
inghiottendo sorsi di non-aria e strazio,
tossivo fino a sputare sangue.
Sulla tua presenza: ti prendevo,
portavo, ti rubavo a piene mani,
dimentica che tu sei altra, inaccessibile,
che sei di Dio, ma neanche Dio ti ha tutta.

Su quell’ultima magrezza premortale
che ti finì con denti di topo.
Sulla sacra patria benedetta
che ti abbandono nella più cruda orfanità.

Sull’uomo che osserva un gruppo di bambini,
il buonissimo, eccentrico africano,
che tu amasti per tua sventura-
E sui bambini. E sul viale Tverskoj.

Sul tuo mesto riposo in paradiso
dove per te non c’è mestiere né tormento.
Giuro di uccidere la tua Elàbuga
sulla tua Elàbuga, perché dormano i nipoti.

Di notte li spaventeranno le vecchiette
(ignorano che non esiste per davvero):
«Dormi, tesoro, non parlare più,
altrimenti viene l’orco Elàbuga».

E lui arriverà, strisciando
su mille zampette aggrovigliate.
Pesterò senza pietà i suoi tentacoli
col mio stivale ferrato.

Con tutto il mio peso gli schiaccerò
la nuca, non lascerò la presa.
Il verde succo dei bambini,
veleno amaro, brucerà le suole.
E nella terra, perché la terra è senza fondo,
getterò l’uovo maturato nella sua coda,
e non dirò nulla di quel terrazzino,
della mortale randagità di Marina.

Lo giuro. Finché nel buio,
con fetore di melma e rospi di pozzo, guatandomi col suo occhio giallo,
Elàbuga non giurerà di ammazzarmi.

Клянусь

Тем летним снимком: на крыльце чужом,
как виселица, криво и отдельно
поставленном, не приводящем в дом,
но выводящем из дому. Одета

в неистовый сатиновый доспех,
стесняющий огромный мускул горла,
так и сидишь, уже отбыв, допев
труд лошадиный голода и гона.

Тем снимком. Слабым остриём локтей
ребенка с удивленною улыбкой,
которой смерть влечет к себе детей
и украшает их черты уликой.

Тяжелой болью памяти к тебе,
когда, хлебая безвоздушность горя,
от задыхания твоих тире
до крови я откашливала горло.

Присутствием твоим: крала, несла,
брала себе тебя и воровала,
забыв, что ты – чужое, ты – нельзя,
ты – Богово, тебя у Бога мало.

Последней исхудалостию той,
добившею тебя крысиным зубом.
Благословенной родиной святой,
забывшею тебя в сиротстве грубом.

Возлюбленным тобою не к добру
вседобрым африканцем небывалым,
который созерцает детвору.
И детворою. И Тверским бульваром.

Твоим печальным отдыхом в раю,
где нет тебе ни ремесла, ни муки,-
клянусь убить елабугу твою.
Елабугой твоей, чтоб спали внуки,

старухи будут их стращать в ночи,
что нет ее, что нет ее, не зная:
“Спи, мальчик или девочка, молчи,
ужо придет елабуга слепая”.

О, как она всей путаницей ног
припустится ползти, так скоро, скоро.
Я опущу подкованный сапог
на щупальца ее без приговора.

Утяжелив собой каблук, носок,
в затылок ей – и продержать подольше.
Детёнышей ее зеленый сок
мне острым ядом опалит подошвы.

В хвосте ее созревшее яйцо
я брошу в землю, раз земля бездонна,
ни словом не обмолвясь про крыльцо
Марининого смертного бездомья.

И в этом я клянусь. Пока во тьме,
зловоньем ила, жабами колодца,
примеривая желтый глаз ко мне,
убить меня елабуга клянется.

I vulcani

Tacciono i vulcani spenti.
Cade cenere nella loro pancia.
Lì riposano i giganti, stanchi
dopo i misfatti compiuti.

È sempre più freddo il loro regno,
smepre più greve alle loro spalle,
ma di notte li visitano ancora
peccaminose visioni.

Sognano la città condannata,
ignara del proprio destino,
il basalto, che in arabescate colonne
incornicia i giardini.

Lì bambine raccolgono a bracciate
fiori sbocciati da tempo,
lì baccanti fanno cenni agli uomini
che sorseggiano il vino.

Lì impazza sempre più stupido
un festino, lì volano ingiurie.
Oh, Pompei, bambina mia,
figlia di una regina e di uno schiavo!

Prigioniera della tua buona sorte,
a chi pensavi, a cosa,
quando, intrepida, al Vesuvio
ti appoggiavi col piccolo gomito?

Non ti stancavi di ascoltarne i racconti,
sgranavi gli occhi stupiti
per non sentire i boati
del suo incontenibile amore.

E lui, con la sua fronte perspicace,
proprio allora, sul finire del giorno,
cadde ai tuoi piedi senza vita
e urlò: “Perdonami!”.

Вулканы

Молчат потухшие вулканы,
на дно их падает зола.
Там отдыхают великаны
после содеянного зла.

Все холоднее их владенья,
все тяжелее их плечам,
но те же грешные виденья
являются им по ночам.

Им снится город обреченный,
не знающий своей судьбы,
базальт, в колонны обращенный
и обрамляющий сады.

Там девочки берут в охапки
цветы, что расцвели давно,
там знаки подают вакханки
мужчинам, тянущим вино.

Все разгораясь и глупея,
там пир идет, там речь груба.
О девочка моя, Помпея,
дитя царевны и раба!

В плену судьбы своей везучей
о чем ты думала, о ком,
когда так храбро о Везувий
ты опиралась локотком?

Заслушалась его рассказов,
расширила зрачки свои,
чтобы не вынести раскатов
безудержной его любви.

И он челом своим умнейшим
тогда же, на исходе дня,
припал к ногам твоим умершим
и закричал: “Прости меня!”